A Vucata
Sino all’ultimo dopoguerra, le donne per lavare i panni e gli indumenti si recavano alle due fiumare che si trovano nel territorio di Ricadi. Quelle delle frazioni alla fiumara Ruffa, quelle di Ricadi a quelle di Coccolino.Ma a tutte, indistintamente, l’occupazione richiedeva tre giorni di duro lavoro. Non solo, ma se oggi veniamo inondati dai detersivi, a quei tempi il sapone bisognava fabbricarlo da sé. Ed era un’attività riservata alle casalinghe.
Anticamente usavano ‘a murga, gli scarti, cioè, della lavorazione dell’olio d’oliva con l’aggiunta di acqua e potassa., il carbonio in puro di potassio derivato dalla lisciviazione delle ceneri. E dopo aver portato il miscuglio ad ebollizione, una volta raffreddato, rovesciavano il paiolo ricavando una specie di budino. Lo tagliavano a fette con un filo di ferro o con un grosso coltello riponendolo in una cassa e le usavano poi per la biancheria e per l’igiene del corpo. Durante gli anni dell’ultima guerra, per la grande ristrettezza economica, al posto della murga impiegavano anche le pale dei fichi d’India, ma quello che ne veniva fuori era una poltiglia verdastra e lipposa che al contatto dell’acqua si diluiva subito. Negli anni ’60, complice la ripresa economica, si usava il grasso di maiale, che fino ad allora era servito per l’alimentazione. Ma con l’olio d’oliva continuavano a produrre un sapone dagli effetti benefici, specie per curare le infezioni fungine della pelle. La biancheria d’un mese, lenzuola, asciugamani e tovaglie, veniva accumulata sotto il letto o in qualche ripostiglio, in una cesta. Poi, raccolte quelle pochissime cose, con la gerla in testa si incamminavano verso la fiumara più vicina. Il primo giorno lavavano i panni con il solo sapone e dopo averli strizzati, se li riportavano indietro. L’indomani con l’accensione di un fuoco sotto casa, aveva inizio la vucata. Si faceva bollire una caldaia d’acqua e cenere raccolta nei caminetti e si otteneva ‘u ciliu’. Intanto si era badato a incofanari i panni situandoli a strati dentro una grande sporta o cofanu dopo averla rivestita con un telo bianco. Sotto si metteva una specie di scifu un disco di legno fatto apposta per raccogliere il liquido sgocciolato che, attraverso un becco, veniva incanalato in un secchio. Quando l’acqua bolliva con una cannata, un’anforetta di terracotta a due manici, si attingeva e a poco a poco si espandeva il denso liquido sulla biancheria. Con quello che restava, si approfittava per pulire a fondo le pochissime posate ed i piatti. Il giorno dopo si scofinava, togliendo gli strati dei panni. Poi, per la seconda volta le donne ritornavano alla fiumara, per sciacquare con l’acqua corrente ‘u ciliu’ , la cenere accumulata nella biancheria. Dopo stendevano i panni al sole poggiandoli alle sipali, le staccionate che limitavano i poderi, dove si sedevano per fare la guardia ed evitare furti. Poi, prendevano a piegare le grinze, per la scarsità dei ferri da stiro. Verso sera, sfinite, ritornavano a casa portando quelle poche cose che la grigia cenere aveva profumato e reso immacolate.